Pensavo che certi argomenti fossero oramai consegnati all'oblio. Dopo feroci
discussioni fra sostenitori e detrattori, vittime eccellenti di eccessi
ideologici, immaginavo che - finalmente - si potesse parlare di altri aspetti
del vino. Nel corso degli ultimi anni, il mondo del vino ha vissuto tendenze,
mode e filosofie dal sapore di religione integralista, tutte legate a
una sorta di guerra santa combattuta strenuamente in nome di una non
meglio specificata purezza del vino. Uno scontro ideologico e tecnico
combattuto su fronti diversi, che ha visto protagonisti - loro malgrado e
inconsapevolmente - lieviti, anidride solforosa e quant'altro ritenuto
colpevole di supposte sofisticazioni, anche lievi, in nome di una non sempre
comprensibile purezza enologica. In tutti questi anni - caratterizzati da
infinite chiacchiere, spesso inverosimili, infondate e futili, perfino
sostenute da motivi senza alcun fondamento pratico, tecnico e scientifico - un
elemento, in particolare, sembrava essere escluso da questi scontri.
Il legno, o per meglio dire, la botte, nello specifico una botte particolare -
la barrique - sembrava essere esclusa dalle nuove scuole di pensiero enologico,
tutti concentrati altrove e puntando il dito contro la chimica. Che poi,
piaccia o no, il vino non è altro che il risultato di processi chimici e
biologici, usati e controllati dall'uomo con lo scopo di ottenere un vino
capace di gratificare le nostre emozioni e il nostro piacere. Il legno, seppure
protagonista in passato di feroci discussioni, non sembrava torturare più i
pensieri dei puristi e appassionati, tanto da tenerlo più o meno escluso dalle
mode degli anni recenti. Tutti a puntare il dito contro i lieviti selezionati,
l'aggiunta di anidride solforosa e altri additivi, pratiche virtuose in vigna,
rispetto per l'ambiente e viticoltura sostenibile. La barrique sembrava essere
esclusa, forse oramai considerata uno strumento - uno dei tanti - ammissibile
e accettabile nella produzione di vino, apparentemente assolta dal ruolo di
demonio infernale.
Invece no. Per molti, la celebre botte bordolese da 225 litri è ancora un
simbolo di chissà quale orrenda pratica enologica, una sofisticazione
invereconda che lede pesantemente l'espressione delle uve e dei territori.
Mi chiedo se a Bordeaux pensano la stessa cosa. Chissà se pensano che la
barrique - con la sua anima impura e satanica - sia capace di plagiare Merlot,
Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e le altre di quella terra, oltre ai tanti
celebri cru di quel territorio. Non so dire se si tratti semplicemente
dell'atteggiamento difensivo nel rifiutare qualunque cosa che non appartiene
alla propria cultura o tradizione, oppure di autentica ignoranza. Quello che
posso dire - così pensavo - è che la crociata contro la barrique, che tanto ha
acceso gli animi di produttori e appassionati fino a una quindicina di anni fa
circa, fosse oramai superata e conclusa.
Mi capita molto spesso di incontrare produttori e di assaggiare i loro vini,
ascoltare le loro storie e le visioni personali, viticolturali ed enologiche
con le quali producono i loro vini. In particolare, mi appassiono spesso
nell'ascoltare i produttori che non conosco, sia perché sono spinto da
curiosità, sia per l'opportunità di conoscere qualcosa di nuovo e - magari -
buono. Si discute, si scambiano opinioni che sono sempre utili al costruttivo
confronto anche quando non si condividono le idee degli altri. In particolare,
mi interessano le pratiche viticolturali ed enologiche che portano alla
creazione dei loro vini, anche per meglio comprendere il risultato in funzione
delle uve e delle tipicità del territorio. In altre parole, cosa fa il
produttore per interpretare quello che coltiva in vigna. Mi interesso
inoltre ai contenitori utilizzati per la fermentazione e maturazione dei vini,
fra questi - ovviamente - le botti.
Non tutti i produttori sono uguali e ognuno ha la sua visione su come deve
essere il vino, in particolare il suo vino, ognuno forte di idee - fondate o
meno - su cosa può o deve entrare nella sua vigna e cantina. Di recente, mi è
capitato più di una volta di confrontarmi sul tema botti e barrique con alcuni
produttori che non conoscevo, rilevando che per alcuni questo tema è piuttosto
sgradevole e controverso. In particolare la barrique che è vista da molti come
il male assoluto del vino, responsabile della peggiore mistificazione enologica
e, secondo loro, quelli che la usano non sanno come si fa il vino. Il vero
vino, ovviamente. Insomma, con alcuni è stato un po' come parlare del diavolo
in chiesa. A loro dire la barrique distrugge la vera natura del vino, ne
stravolge il gusto e i profumi, un oltraggio all'integrità di uve e territori.
Personalmente, insisto nel dire che qualunque pratica svolta dall'uomo -
qualunque e senza eccezione alcuna - produce l'effetto di alterare e
veicolare il gusto e il carattere del vino.
Lo fanno i lieviti selezionati, non da meno quelli indigeni, lo fa l'anidride
solforosa, anche quella naturalmente prodotta dalla fermentazione
indipendentemente dal tipo di lievito. Alterano il sapore del vino anche i
travasi e il tempo, pure l'ossigeno, che semplicemente fa il proprio
lavoro, nel bene e nel male. Io credo che, molto spesso, si tratta
dell'incapacità di sapere usare certi strumenti o, forse, di non averne
compreso il ruolo e l'effetto. Chiunque sa, infatti, che non si mette il vino
in botte o in barrique per alterarne il gusto. Chi lo fa per ottenere questo
risultato evidentemente è perché ha un pessimo vino che cerca di
mascherare alla meno peggio. Ciò che rende buono o cattivo uno strumento
o un oggetto è esclusivamente il tipo di uso che se ne fa. Una pistola non è né
buona né cattiva: e l'uso che se ne fa a renderla l'una o l'altra. A tale
proposito mi piace citare queste celebri parole: «il migliore vino passato in
legno è quello dove il legno non si sente». Chi l'ha detto? Émile Peynaud,
senza timore di smentita uno dei più grandi enologi dell'era moderna, per
giunta francese e che di barrique e botti - evidentemente - ne capiva qualcosa.
E non solo di quello.
Antonello Biancalana
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