Sono oramai passati oltre trenta anni da quando ho iniziato a degustare vino, sia
per diletto sia per motivi professionali. Ed è trascorso più o meno lo stesso
tempo da quando ho iniziato a studiare enologia, degustazione sensoriale,
ampelografia ed enografia, sempre per i medesimi motivi. L'ultimo argomento, in
particolare – l'enografia, cioè la cosiddetta geografia del vino – ha
sempre attratto la mia curiosità, argomento pressoché infinito per conoscere i
vini del mondo, poiché in continua evoluzione. L'enografia è infatti quella
disciplina che si occupa dello studio dei vini delle regioni vitivinicole del
mondo, compresa la composizione dei rispettivi suoli, le condizioni climatiche e
ambientali, le pratiche vitivinicole ed enologiche, compresa l'ampelografia, cioè
la presenza e la diffusione nei territori delle varietà di uva da vino.
L'enografia, inoltre, include lo studio della legislazione vitivinicola dei vari
paesi oltre alle denominazioni e i sistemi di classificazione di qualità dei vini.
Lo studio e la valutazione dei sistemi di classificazione della qualità enologica
in vigore nei vari paesi del mondo è sempre un esercizio interessante. Non solo
permette la comprensione della cultura enologica di quel paese, più
specificamente, il significato commerciale che il vino rappresenta in ogni
singolo territorio. Si evidenziano – in modo particolare – le varietà d'uva
sulle quali si fonda la produzione enologica di un paese, non da meno la sua
ricchezza di uve da vino, autoctone e internazionali, queste ultime
introdotte sia per condizioni di opportunità sia per motivi di palese
speculazione o emulazione commerciale. In particolare, lo studio
dell'ampelografia dei vari paesi vitivinicoli del mondo, mette in chiara evidenza
– per esempio – la differenza fra i principali paesi europei e quelli del resto
del mondo. Nei primi, la produzione è fortemente basata sull'impiego di varietà
autoctone, nei secondi su uve introdotte dai paesi europei, in modo particolare,
dalla Francia e Italia.
Non da meno, si evince l'imponente ricchezza ampelografica di varietà autoctone
dell'Italia – se ne contano oltre 500 – ponendo, in questo senso, il nostro
Paese al primo posto nel mondo. Quando poi si iniziano a valutare le norme che
regolano i sistemi della classificazione di qualità dei vari paesi vitivinicoli
del mondo, si scopre che, in termini generali, si somigliano tutti. Alcuni sono
innegabilmente più rigorosi e rigidi, altri sono palesemente più permissivi e
aperti, tutti – in modo più o meno analogo – definiscono il criterio di
qualità in base alla quantità di uva in relazione a una determinata
superficie di vigna, oppure la resa di uva in mosto, sempre in relazione a
un'area delimitata di terreno. Un aspetto che ha sempre attratto la mia
curiosità, fra le prime cose che ho sempre controllato ogni volta che ho iniziato
a studiare l'enografia di un paese, è la definizione di vino monovarietale.
Puntualmente, sono sempre rimasto perplesso su come le leggi di ogni singolo
paese consentano – in molti casi – la definizione di vini monovarietali quando,
in realtà, non lo sono affatto.
Ricordo, infatti, il mio stupore quando scoprì per la prima volta che molti dei
disciplinari di produzione di vini italiani consentivano la definizione di vino
monovarietale nel caso in cui una singola varietà fosse presente per almeno
l'85%. Come se il 15% non contasse nulla e non avesse dignità, in quanto
elemento complementare e che – per magia – si trasforma in un'altra uva. Il
15%, a ben pensare, non è affatto poco. Una quantità, sebbene minoritaria, che
ha comunque la capacità di alterare, spesso in modo significativo, il profilo
sensoriale di un vino. Prendiamo, per esempio, un vino monovarietale prodotto con
un'uva non aromatica, quindi legalmente definito tale in ragione della sua
presenza per l'85%. Aggiungiamo a questo vino il 15% di una varietà aromatica:
l'impatto sensoriale, olfattivo in particolare, è completamente alterato e, come
per magia, quel vino esprime, in modo piuttosto evidente, profumi ammalianti ed
esuberanti di succo d'uva. A titolo d'esempio, immaginiamo un vino prodotto
con Trebbiano Toscano per l'85% e per il restante 15% di Moscato Bianco. In
quel vino, l'espressione del Trebbiano Toscano è irrimediabilmente coperta da
quella del Moscato Bianco, restituendo un vino facile e diretto, con un
naso decisamente piacevole.
Ho portato questo esempio, per così dire, estremo, solo per fare meglio
comprendere quello che può accadere in un vino monovarietale e, per giunta, in
modo del tutto legale. Per onore di completezza, va detto che le quote
complementari del 15% – nei disciplinari che lo prevedono – possono essere
rappresentate unicamente da varietà ammesse alla coltivazione in quel territorio.
Inoltre, spesso è indicato l'esplicito divieto di usare varietà aromatiche. In
ogni caso, in molte delle denominazioni italiane la quantità di varietà ammesse
alla coltivazione è solitamente piuttosto ampia, quindi – per così dire – gli
strumenti per alterare il profilo monovarietale di un vino è decisamente
ampio. L'alterazione non riguarda, ovviamente, solamente il profilo olfattivo: si
pensi, infatti, all'aggiunta del 15% di una varietà morbida come il
Merlot, in un vino prodotto con l'85% di Pinot Nero. Un altro esempio
estremo, tuttavia utile a comprendere quanto una piccola quantità di appena
il 15% sia capace di stravolgere il carattere di un vino.
Qualora queste considerazioni facessero pensare a una critica ai vini
monovarietali italiani e al sistema di qualità in vigore in Italia, è bene
precisare che lo stesso criterio è presente e diffusissimo in tutti gli altri
paesi vitivinicoli del mondo. Inoltre, sempre in merito al sistema di
classificazione di qualità enologica italiano, va ulteriormente detto che quello
in vigore nel nostro Paese è, per molti aspetti, decisamente più rigoroso
rispetto a quello di molti altri. Dal punto di vista prettamente sensoriale,
qualunque degustatore con un minimo di esperienza riuscirebbe a cogliere
l'apporto del 15% in un vino da parte di una varietà, per così dire, dal
carattere forte, sia nei profumi, sia nel gusto. Al degustatore meno esperto,
così come al consumatore poco attento, quel vino sembrerà certamente più
piacevole a causa del contributo della varietà presente in minore parte,
tuttavia, in entrambi i casi, il risultato è evidentemente un inganno. Si
assocerà inevitabilmente quel profilo sensoriale alieno alla varietà principale,
quando – in realtà – non gli appartiene minimamente. In termini legali, però,
quel vino è legittimamente monovarietale e rappresenta l'espressione pura e
immacolata dell'uva primaria.
I nostri antenati direbbero: cui prodest? (A chi giova?) Di certo ne
traggono beneficio tutti quei vini modesti e mediocri che, con poco – appena il
15% – possono vestirsi di abiti che non sono, e non saranno, mai i propri. E
questo, decisamente, giova anche alle potenziali possibilità di mercato di un
vino poiché, trasformato in modo da conferire qualità organolettiche più
piacevoli, evidentemente ha maggiori possibilità di guadagnarsi le
preferenze dei consumatori. Vorrei concludere con una personalissima
considerazione. Parliamo tutti i giorni, e non solo per quanto riguarda il vino,
di tutelare l'identità di un prodotto, di conservarne la sua espressione più
tipica, tradizionale, come se fosse una sorta di sacralità intoccabile, tuttavia
accettiamo di correggere il carattere che la natura ha concesso a ogni uva, tanto
da rendere monovarietale quello che monovarietale non è. Per onore di verità e
chiarezza, va detto che ci sono tantissimi disciplinari di produzione
estremamente rigorosi e, giustamente, per la definizione dei loro vini
monovarietali impongono l'esclusivo uso di quell'uva. Ma in tutti gli altri casi,
è veramente necessario trasformare l'identità di un'uva, di un vino, solo per
compiacere la superficialità di consumatori distratti, sostenendo poi
ipocritamente il ruolo di inflessibile e irriducibile paladino della sacra e
tradizionale identità di un territorio e delle sue uve? Sì, inflessibile e
irriducibile, fiero difensore della sacra purezza. Ma solo per l'85%.
Antonello Biancalana
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