Ho sempre avuto un'enorme stima e rispetto per Luigi Veronelli. Ai suoi libri e
ai suoi interventi televisivi devo il mio primo interesse costruttivo con il
mondo del vino, un interesse che andasse oltre al semplice versare il
vino nel bicchiere e berlo, gesti consueti con i quali si cresce in Italia. I
miei primi ricordi di Luigi Gino Veronelli, prima ancora dei suoi libri e di
quello che scriveva, appartengono alle sue apparizioni televisive in compagnia
di Ave Ninchi - la grande e indimenticabile attrice - nel programma A Tavola
alle Sette. A quei tempi ero un bambino, ma ero affascinato dal modo con il
quale Luigi Veronelli descriveva e raccontava la cucina e i vini, due argomenti
che sembravano non avere segreti per lui e che raccontava con disarmante ma
efficace semplicità. Non da meno, ricordo la piacevolissima contrapposizione al
limite dello scontro - e spesso ilare - fra Luigi Veronelli e Ave Ninchi, nel
loro continuo punzecchiarsi, spesso in modo feroce, anche se era
evidente che fra loro esisteva un immenso rispetto e stima reciproca.
Ricordo anche quando lo incontrai - prima e unica volta - in occasione della
celebre manifestazione vinicola che si svolge a Verona. Era il 1999. A quei
tempi mi occupavo semplicemente di enogastronomia come consulente, avevo già
conseguito il diploma di sommelier, e da sei anni frequentavo quella
manifestazione vinicola, alla ricerca di nuovi vini e nuovi produttori. Luigi
Veronelli era presente allo stand della sua casa editrice e ricordo la mia
emozione quando lo vidi e mi resi conto che era proprio lui. E ricordo il suo
sorriso, ampio e luminoso, schietto, genuino e rassicurante, i suoi occhi e il
suo sguardo attento e vivace di chi non smette mai di guardare, cercando di
capire, pur già conoscendo e avendo visto molto. Innegabile, il patrimonio che
ci ha lasciato Luigi Veronelli è immenso. Lui per primo ha avuto il coraggio di
iniziare l'indispensabile processo di cambiamento del vino italiano,
riconoscendo la giusta dignità a chi lavora nel vigneto e con il proprio sudore
produce vino.
Fra i tanti aneddoti, le tante cose dette da Luigi Veronelli, ricordo spesso il
racconto del suo incontro con René Engel, il grande vignaiolo di Nuits Saint
Georges in Borgogna. Veronelli ricorda che quando lo incontrò era il 1956 ed era
un giovane con ambizioni di giornalismo enologico. René Engel era già anziano e
gli offrì un bicchiere del suo Vosne Romanée. Allo stupore di Luigi Veronelli di
fronte a quel calice - stupore che avrebbe avuto qualunque appassionato di vini
della Borgogna - René Engel con un sorriso supponente, disse «Vedi, voi avete
uve d'oro e fate vini d'argento, noi uve d'argento e vini d'oro». A queste
parole, Luigi Veronelli pensò che uve d'oro, qualora fossero vinificate
correttamente, avrebbero certamente prodotto vini aurei; uve d'argento potevano
produrre al massimo vini che sembravano d'oro senza esserlo. Innegabile che la
Francia e i francesi abbiano dato tanto al mondo del vino. Innegabile che i
francesi abbiano compreso, molto prima degli italiani e di chiunque altro, cosa
fosse il vino, il vino di qualità e il giusto modo di esaltare la vigna, il
territorio e con questo i loro vini d'oro - innegabilmente d'oro -
nonostante fossero prodotti con uve d'argento.
A distanza di tutti questi anni, c'è da chiedersi se gli italiani hanno
finalmente capito di possedere uve d'oro. All'apparenza e di questi tempi,
intorno al vino italiano si parla con sempre maggiore frequenza di uve
autoctone, di vini naturali, dell'impiego di tecniche e pratiche
tradizionali di un tempo, il rifiuto della chimica e di una certa tecnologia,
spesso ostentati come presunto merito, come se questo bastasse a garantire un
vino di qualità. L'osservazione di Veronelli era comunque giusta: bastava
vinificare correttamente le nostre uve d'oro per avere vini aurei, lasciando ai
francesi le loro uve d'argento, comunque di meritata e innegabile gloria. La
generalizzazione, si sa, è un atto che non rende mai giustizia e spesso non ha
molto senso applicarla. Se però guardiamo a quello che sta accadendo nel mondo
del vino italiano, è evidente che la realtà disegna un quadro diverso da quello
delle parole e delle intenzioni. Va altresì osservato che esistono - per fortuna
- moltissime e lodevoli eccezioni.
Ci sono produttori che questo lo hanno capito da subito, o meglio, lo hanno
sempre saputo, mentre altri volevano fosse realmente così, anche se nei loro
vigneti, a garanzia di qualità e prestigio, hanno sempre trovato posto le
classiche e solite uve francesi. Migliorative, si diceva e si continua a dire.
Non è una crociata contro Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah, Chardonnay e
Sauvignon Blanc - solo per citare i nomi più celebri - poiché è evidente che con
queste uve si producono vini di primaria grandezza, a patto che si lavori bene
in vigna e poi in cantina. Il prezzo che si paga oggi per avere introdotto in
modo praticamente indiscriminato queste uve nei nostri vigneti è quello di non
poterle abbandonare. O almeno, non subito. In passato si è provveduto
all'estirpazione di vigneti di varietà locali per fare posto alle miracolose uve
migliorative francesi che davano l'illusione - insieme alla barrique - di
garantire un grande vino con pochi sforzi. Procedere oggi con la loro
sostituzione sarebbe estremamente costoso.
Che fare quindi di tutte queste uve d'argento nei vigneti italiani,
nonostante la tendenza sia quella di valorizzare le varietà autoctone, nel
cammino che dovrebbe portare - si spera - alla produzione dei vini aurei
auspicati da Luigi Veronelli? Dove non entra il buon senso, entra sempre la
politica e il suo modo arruffone di sistemare le cose. Una soluzione
adottata sempre più spesso in Italia, è quella di modificare i disciplinari di
produzione, o di crearne appositamente di nuovi, così da introdurre, in modo
legale - pardon, migliorativo - queste varietà in quei vini dalla lunga
storia e da sempre prodotti con uve autoctone. Molti sono i disciplinari di
produzione già modificati in passato o per i quali si sono proposte modifiche di
questo tipo e in attesa di approvazione. L'unica speranza è che i produttori più
seri, tenaci e lungimiranti, si oppongano a questa disgraziata ipotesi, evitando
l'uso di queste varietà così da consentire alle nostre uve d'oro di
esprimersi come meritano. E soprattutto, di metterlo bene in evidenza nelle
etichette dei loro vini, poiché nessun paese al mondo vanta una varietà
ampelografica come quella d'Italia. E questa è una ricchezza, un immenso
patrimonio che va rispettato. Caro Gino Veronelli, c'è ancora tanta strada da
fare per arrivare ai tuoi vini aurei e che tutti stiamo aspettando. Sono sicuro
tu lo sapevi già.
Antonello Biancalana
|