Degustare il vino in compagnia è sempre molto interessante. Mi riferisco,
ovviamente, al contesto amichevole e informale, con il sano spirito di
condividere una bottiglia con gli altri. Spesso accade, in occasione di un
convivio, durante il quale si aprono diverse bottiglie – del resto, ogni
portata vuole il suo vino – che la bevanda di bacco diventi inevitabilmente
oggetto di discussione e confronto. Non solo per quanto concerne il suo
abbinamento con la portata specifica, ma anche – e soprattutto – sul
gradimento in sé, inevitabilmente condizionato dal gusto, cultura e rapporto
con il vino che ognuno di noi possiede. Quest'ultimo fattore, in particolare,
dirige la discussione verso temi specifici e, soprattutto, sull'accettabilità
di certe caratteristiche del vino, sia nel caso di difetti, più o meno palesi o
nascosti, sia sulle qualità positive. A seconda delle persone con le quali si
condivide una bottiglia – cosa che si fa sempre con piacere, a prescindere –
la discussione, inevitabilmente e ovviamente, si focalizza prevalentemente su
certi argomenti o aspetti del vino.
Ovviamente, l'opinione e il pensiero di chiunque è parimenti importante e
indipendentemente dal ruolo o rapporto che si ha con il vino: la visione e le
aspettative che ha un enologo, per esempio, sono ben diverse, e spesso
distanti, da quelle di un appassionato. Posizioni evidentemente comprensibili e
lecite: se si considerano le rispettive opinioni, per quello che sono,
dimostrano coerenza, appunto, con il ruolo. C'è una cosa, tuttavia, che mi fa
riflettere ogni volta che si iniziano confronti e scambi di opinioni intorno a
una bottiglia di vino. La tolleranza ai difetti e la capacità di rilevarli
dipende sempre fortemente dal ruolo e dal rapporto che ognuno di noi ha con il
vino. Si potrebbe dire che si tratta di un fatto di esperienza, oppure
di orientamento professionale, in realtà non è solamente questo. In fin
dei conti – e questo è un fatto innegabile – più vini si degustano e maggiore
è la conoscenza relativa dell'esercizio della valutazione sensoriale, cosa
che, inevitabilmente, contribuisce allo sviluppo di una certa cultura al
concetto di qualità oggettivamente condivisa.
La cosa che spesso mi sorprende è il rapporto che ognuno di noi ha con i
difetti, indipendentemente dal ruolo e dalla passione. Personalmente,
tollero malvolentieri la presenza di difetti nel vino, o – quantomeno –
quelli che io considero tali, soprattutto quando dipendono dall'incuria
viticolturale ed enologica. Si tratta, nel mio caso specifico, di quei difetti
che sono definiti come tali nella totalità dei trattati di enologia, per
esempio ossidazioni, spunto, rotture, contaminazioni e certe degradazioni
enzimatiche o batteriche. Non da meno, anche gli effetti collaterali
dovuti all'attività di certi lieviti, universalmente considerati negativi
per lo svolgimento della fermentazione. De gustibus non est disputandum,
dicevano i saggi del passato, i quali – secoli orsono – riconoscevano
l'indiscutibilità dei gusti personali. A patto che restino nella sfera
personale e non abbiano la pretesa di essere imposti agli altri. Peggio ancora,
sostenuti dall'arroganza e dalla cieca stupidità di chi è convinto di
conoscere l'unica verità che, guarda caso, è sempre e solo la sua,
sebbene riveli puntualmente una supponente ignoranza.
È comunque interessante osservare come certi difetti, o che almeno io ritengo
tali, risultino in realtà straordinari pregi per altri. Non mi riferisco
all'incapacità di percepire e sapere riconoscere i difetti del vino, o quanto
meno, quelli che, secondo consolidati criteri enologici sono considerati tali,
piuttosto la sincera convinzione che quel difetto percepito sia, in realtà, un
magnifico pregio. Ancora peggio, secondo me, quando un difetto è, non solo
tollerato, ma addirittura considerato l'inconfutabile prova di genuinità, non
da meno, di pratica enologica onesta e autentica. Inoltre, la mancanza di
difetti, cioè un vino pulito dal punto di vista sensoriale, è spesso
motivo di dubbio, sospettando, non da meno, chissà quale abominevole
pratica enologica artefatta e all'insegna della più bieca sofisticazione.
Insomma, per molti il fatto che un vino non abbia difetti è un difetto. Un
paradosso con il quale mi capita molto spesso di confrontarmi e che, purtroppo,
mi pare piuttosto frequente fra gli appassionati di vino.
A volte mi chiedo se questo sia, in realtà, la conseguenza dell'evoluzione del
gusto o, per meglio dire, quello che la maggioranza oggi cerca in un vino. Così
fosse, in tutta sincerità, direi che si tratta piuttosto di una regressione del
gusto, come se fosse un ritorno al passato a circa 30 anni fa quando, in
effetti, trovare dei vini con certi difetti era abbastanza frequente. E quando
accadeva di trovarseli nel calice, la reazione di disapprovazione, per non dire
disgusto, era pressoché unanime. Oggi, invece, mi pare ci sia maggiore
tolleranza verso certi difetti, anche imbarazzanti, che sono addirittura
considerati pregi. Coloro i quali riescono ad apprezzare questi pregi
difettosi puntualmente sottolineano la genuinità del vino, peggio ancora, il
segno indiscutibile di qualità identificative di uve e di terroir. Io
credo, in realtà, si tratti anche dell'incapacità a riconoscere i difetti, non
da meno, della sempre più frequente tendenza a ignorare e non allenare i propri
sensi in modo consapevole e cosciente, affidandosi alla superficialità che,
innegabilmente, è meno faticosa e offre con poco l'illusione di essere eruditi.
In una società nella quale l'apparenza diviene fondamento per l'affermazione di
sé stessi, reclamando a tutti i costi il proprio ruolo di esperti, o
presunti tali, la superficialità garantisce, indubbiamente, la gloria
dell'ignoranza. Immagino per alcuni questo possa essere considerato come
presuntuoso o esagerato, tuttavia, ogni volta che sento qualcuno esaltare un
difetto alla stregua di pregio, mi tornano sempre in mente le famose parole di
Émile Peynaud, il celebre enologo francese, indiscusso padre dell'enologia
moderna di qualità. «Siete voi che in un certo senso fate la qualità. Se ci
sono vini cattivi è proprio perché ci sono dei cattivi bevitori. Il gusto è
conforme alla rozzezza dell'intelletto: ognuno beve il vino che merita».
Un'affermazione, sono sicuro, che potrebbe risultare estrema o perfino
discriminatoria per alcuni, ma che – personalmente – ho sempre
apprezzato e condiviso.
Sostenere che un vino privo di difetti è difettoso, supponendo sia il
risultato di pratiche enologiche sofisticate, alludendo a non meglio
precisate o indefinibili adulterazioni chimiche, è qualcosa che
personalmente mi fa sorridere. Soprattutto per la banale considerazione che,
indipendentemente da come si fa, il vino è innegabilmente il risultato di
processi chimici, nel bene e nel male. Perfino il banalissimo processo
di trasformazione del vino in aceto – fenomeno assolutamente genuino – è il
risultato della chimica. Forse, in tutto questo tempo, non sono riuscito ad
adeguarmi al cambiamento retrogrado del gusto del vino e continuo a tollerare
malvolentieri i difetti e a considerarli per quello che sono: difetti. In fin
dei conti continuo ad accontentarmi di poco e della gioia di avere nel calice
– quando accade – vini che hanno il difetto di non avere difetti. E sorrido,
compiaciuto e contento, pensando a Émile Peynaud.
Antonello Biancalana
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