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Sulla Qualità dei ViniSulla Qualità dei Vini  Sommario 
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Sulla Qualità dei Vini


 A volte, quando trovo nel mio calice un vino che non ho mai degustato in passato, mi soffermo a pensare come la qualità – o meglio, il concetto di qualità – sia cambiato nel corso dei miei trenta anni di degustazioni e assaggi. Questo non accade quando degusto un vino che conosco già, penso di conoscere o riconoscere, perché, in quei casi, è un po' come incontrare un vecchio amico e scambiare due chiacchiere sul tempo che, nel frattempo, è passato. In quei casi mi soffermo a pensare come quel vino sia cambiato rispetto all'ultima volta che l'ho degustato, considerazioni che – inevitabilmente – coinvolgono molti fattori, per esempio l'annata, il suo andamento, l'agronomo che curava o cura la vigna e l'enologo. Inoltre, considero certamente anche la qualità, ma in modo diverso, cioè confrontandola con quella delle annate passate, confidando nei ricordi della mia memoria. Spesso il cambiamento di qualità è evidente – nel bene e nel male – in fin dei conti questo accade anche per i “vecchi amici”, visto che con il tempo tutti cresciamo e, inevitabilmente, cambiamo.


 

 La qualità del vino. Concetto spesso soggettivo, mutevole nel tempo, nonostante i diversi tentativi di definizione oggettiva e condivisibile, unicamente accettabile nell'ambito e nel contesto nel quale si crea, si sviluppa e si condivide. Questo vale per qualunque contesto e ambito, non solo per il vino. C'è poi la qualità fatta unicamente di tante belle parole – e nel vino è frequentissima – che se non la capisci o non la sostieni, è perché del vino non capisci nulla e sei inesorabilmente considerato incompetente, evidentemente addormentato seguace di chissà quale setta occulta e cospiratoria. Un fenomeno, questo, sempre più frequente negli ultimi anni, grazie anche al crescente numero di esperti tuttologi che spuntano come funghi e guai a contraddirli. Un tempo, ammetto, in questi casi ero solito sostenere la mia idea di qualità – con l'irrinunciabile condizione del dialogo civile e costruttivo – oggi lo sono molto meno. In fin dei conti, se uno è felice del suo concetto di qualità enologica e apprezza i vini che la esprimono, mi sta bene e non obietto: se quei vini non finiscono nel mio calice, va benissimo così, siamo tutti felici e contenti.

 Durante tutti questi anni trascorsi a degustare e assaggiare vini – sia in contesti “rigorosi”, sia in quelli informali, amichevoli e rilassati – il concetto di qualità enologica è cambiato diverse volte. In certi casi, non da meno, contraddicendo o modificando radicalmente quello che fino a qualche anno prima era considerato indiscutibile. Quando ho iniziato a occuparmi del vino, per così dire, in modo più consapevole e intraprendente – era l'inizio degli anni 1990 – l'Italia era da poco uscita dal gravissimo scandalo del “vino al metanolo”, una vicenda che, indubbiamente, ha segnato il sistema viticolturale ed enologico italiano e in modo decisamente profondo. Si stava ancora cercando di rimettere insieme le macerie di un sistema gravemente compromesso – almeno in termini di credibilità – e si guardava, con non celato disprezzo, qualunque vino che esprimesse una certa rozzezza tale da ricordare quelle tecniche enologiche superficiali, approssimative e palesemente incuranti. Venivano definiti con disprezzo – potrei dire, in modo unanime e condiviso – “vini del contadino” riferito – va chiarito – non come offesa al nobile lavoro di chi coltiva la terra, piuttosto a un prodotto disgraziatamente mediocre oltre che palesemente difettoso, risultato di pratiche enologiche innegabilmente grossolane o, non da meno, dubbie.

 Si trattava, a quei tempi, di un “epiteto” decisamente spregevole, qualcosa che faceva perfino sorridere per quei difetti così “rozzi” e grossolani, tuttavia fiduciosi del percorso che si stava costruendo verso una nuova qualità che consentisse a chiunque di evitare certe “leggerezze enologiche”. In effetti, quel percorso è stato molto efficace, tanto da consentire alla maggioranza dei produttori di creare vini di buona qualità, spesso eccelsa, privi di quei difetti così imbarazzanti, palese risultato di imperizia e incompetenza enologica. Con gli anni – direi, praticamente storia recente – il significato di quella definizione è drasticamente cambiato, tanto che oggi, per molti “appassionati”, la definizione di “vino del contadino” equivale esattamente alla più alta espressione di qualità enologica nonché di immacolata genuinità sotto ogni aspetto e non solo enologico. Come cambiano i tempi. Quei difetti così “imbarazzanti e rozzi” – per me, sono ancora questo – sono invece diventati gli indiscutibili pregi dell'ineccepibile qualità e della più pura espressione del territorio, delle uve e dell'onestà di chi lo produce. Come cambiano i tempi.

 Intendiamoci: vini di elevata qualità se ne producono davvero tanti e ovunque, tuttavia, rispetto a qualche anno fa, sono aumentati anche i vini con difetti che si immaginava non dovere più incontrare nel calice e, peggio, al naso. Una sorta di ritorno al passato e, si sa, una volta era tutto molto meglio e che fortuna i nostri nonni che hanno vissuto quei fantastici tempi “migliori”, comprese le relative condizioni di vita non esattamente agiate e floride. Verrebbe proprio da dire “caro lei! Non ci sono più quei bei difetti di una volta!”. Nulla è perduto: ci sono, eccome se ci sono e perfino anche di ben peggiori. Sulla non qualità del vino ho smesso di arrabbiarmi da tempo, tuttavia mi sorprendo sempre nel constatare che certi difetti, per me imbarazzanti, sono in realtà da molti considerati particolarissimi e strepitosi pregi. Ho smesso anche di interrogarmi se in realtà quello “strano” sono proprio io, visto che non riesco ad apprezzare certe “raffinatezze qualitative”. Cosa che non escludo, ovviamente. De gustibus non est disputandum, per meglio dire, non li discuto fino a quando quelle “prelibatezze enologiche” sono nel calice altrui e lontane dal mio.

 Continuo tuttavia a sorprendermi quando nel calice sono costretto a versare dei vini con dei difetti imbarazzanti e grossolani, che vanno ben oltre la velatura abbracciando inquietanti torbidezze, non da meno, sfoggiando, senza vergogna alcuna, degli odori che faccio enorme fatica a definire come “difetti” poiché l'unica definizione possibile è “abominevole puzza”. Dura la vita del degustatore. Ma quando si deve – ahimè – la professionalità prende il sopravvento, facendo malvolentieri “buon viso a cattivo gioco”. In quei casi, mi chiedo come sia possibile regredire così tanto in termini qualitativi ed enologici, dopo tutti questi anni nei quali tanto si è fatto per la qualità del vino, con una condivisione e diffusione delle tecniche e conoscenze enologiche praticamente accessibili a chiunque e come non è mai accaduto in passato. Anche a quelli che, pervicacemente, fanno vini osceni nell'apoteosi dei difetti più imbarazzanti, riuscendo perfino a esserne fieri e orgogliosi. Continuo a pensare, anche dopo tutti questi anni passati a studiare e degustare il vino, che Émile Peynaud – il celebre enologo francese, indiscutibile padre della qualità enologica moderna – aveva ragione e continua ad avere ragione. Un suo celebre pensiero mi ha sempre accompagnato e, ancora oggi, trovo che sia assolutamente vero e attuale: «Siete voi (consumatori) che in un certo senso fate la qualità. Se ci sono vini cattivi è proprio perché ci sono dei cattivi bevitori. Il gusto è conforme alla rozzezza dell'intelletto: ognuno beve il vino che merita».

Antonello Biancalana



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